IMPARIAMO A SENTIRE TENCO

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  1. luigitenco
     
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    GIOVANNA MARINI
    Imparare a sentire Tenco


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    All’ascolto delle canzoni di Tenco sento come prima reazione una grande partecipazione
    verso quella che da ogni nota come ogni parola mi appare come un’anima sofferente.
    Come seconda reazione una domanda: come riesce Tenco a darmi questo effetto? Per
    quanto riguarda i testi dei suoi brani la cosa è spiegabile, le parole parlano. Quello che mi
    interessa particolarmente, invece, è spiegarvi come accade questo dal punto di vista
    musicale, e tecnico-musicale, non solo dicendo: << è un feeling>>, o <<sono vibrazioni>>,
    perché credo con questi termini di scavalcare un po’ troppo agilmente questioni di ordine
    tecnico che invece trovo istruttivo per tutti affrontare. Dunque, vediamole un po’ da vicino
    queste canzoni.

    Premetto che spesso al <<vedere da vicino>> un insieme di brani musicali segue una
    gran delusione: da vicino ci si accorge solo che i brani in questione sono tutti uguali e
    poggiano su trucchi timbrici e ritmici che si ripetono sfacciatamente, e uno si ritrova con in
    mano un pugno di mosche, o meglio, un pugno di temi in <<battere>> con svolazzi
    dissennati di chitarra elettrica in apparenza difficilissimi, in sostanza tutti su di un solo
    accordo. Il tutto senza nemmeno la giustificazione della radice etnica per cui si sopporta la
    ripetitività, la monotonia, tutto in cambio del fatto che si tratta di un canto rituale connesso
    alla sua funzione, cosa quindi di per sé pregevole.

    No, con i brani di Tenco non è successo così, li ho ascoltati con sempre crescente interesse.
    Un ascolto analitico diverso da quello con cui solitamente ci si accosta alla <<canzone>>.
    Ho notato che Tenco coltiva due vene musicali. Una è di tipo italico-mediterraneo, è la
    sua migliore, con melodie larghe a intervalli larghi. Come in Un giorno dopo l’altro, Vedrai
    vedrai, Un giorno di questi ti sposerò, Io vorrei essere là, Mi sono innamorato di te. L’altra vena
    musicale coltivata da Tenco è di tipo un po’ più americano, come in E se ci diranno che fa
    venire in mente i cori degli operai americani già essi stessi imitazioni dello spiritual degli
    anni Trenta, che suonano più o meno <<rispondiamo no” su accordi<<tonica-dominante>>
    senza tanto andare per il sottile.

    Direi che, sia nell’una che nell’altra vena, Tenco emerge per aver preceduto di gran
    lunga tutti gli altri che di canzoni di questo genere ne hanno fatte molte e seguendo le
    indicazioni che già in Tenco vediamo prematuramente raccolte.
    Per esempio una regola fondamentale della canzone fine anni Cinquanta-Sessanta era
    quella del ritornello orecchiabile. <<che il pubblico esca dal locale fischiettando il
    ritornello!>> era ed è ancora uno dei leit motiv dei produttori musicali. Tenco si è sforzato
    in questo senso solo in pochi brani, tra cui Ciao amore, ciao e si sente chiaramente che lo ha
    fatto perché presentava quel brano a Sanremo e almeno una regola, tra le tante da lui
    assolutamente ignorate, ha cercato di seguirla. Ma in tutte le altre canzoni non c’è un
    ritornello orecchiabile, nemmeno il << no no no no>> di E se ci diranno riesce a essere
    orecchiabile perché è su una sola nota e non avviene sotto quella nota alcun apprezzabile
    spunto melodico e armonico da far sì che quella nota resti in mente.

    Io tutto ciò lo trovo impertinente, indipendente e quindi apprezzabilissimo: vorrei
    tanto sapere quanto Tenco fosse cosciente del suo star fuori dalle regole anche quando si
    sforzava di starci dentro, e quanto ne fosse cosciente Ruggero Cini, il suo ottimo
    arrangiatore nell’ultimo periodo. In realtà, forse coinvolto e plagiato da un uomo
    decisamente dotato come Tenco, lo seguiva anche negli arrangiamenti in questo suo <<star
    fuori dalle regole>>, raggiungendo il curioso effetto, parallelo a quello della canzone
    composta da Tenco, di fargli degli arrangiamenti che per timbri, colori e suoni sarebbero
    assolutamente canonici (coretti leggeri, batteria a spazzole, accordi consonanti).
    Ma poi per qualche cosa di quasi inavvertibile lì per lì, ma per la sua persistenza
    progressivamente dominante, esce dagli schemi.

    Gli accordi, tanto per dirne una, non riescono mai a essere canonici fino in fondo. Vedrai
    vedrai, per esempio, pare una canzone d’avanguardia con quel pianoforte libero, accordi
    non legati in primo-quarto-quinto, ma con un giro armonico che non è nemmeno un giro;
    e ancora di più nella canzone Se sapessi come fai abbiamo questo strano giro armonico mai
    concluso, con una melodia che parte da un sol e sembra svilupparsi in sol minore, e invece
    un accompagnamento che in realtà è un’altra melodia che parte dal fa e se ne va
    assolutamente per i fatti suoi con una compiutezza melodica da melodia protagonista e
    non da accompagnamento.

    Tutto questo è bello, apprezzabile, oggi, come credo lo fosse ieri. Ieri però non credo
    fosse molto vendibile, oggi si dovrebbe vendere come si vende ciò che è musicalmente
    articolato, abbastanza difficile, sofferto. Io credo che il Cini, che nei suoi arrangiamenti ha
    sempre dato prova di grande sensibilità e grande tecnica, non abbia potuto sottrarsi al
    fascino di queste melodie di Tenco così diverse, e invece di addomesticarle, in sostanza ne
    abbia accentuato la diversità.

    La cosa divertente è che forse anche lui desiderava in realtà
    addolcirle, renderle più commerciabili: questo emerge dalla scelta degli strumenti, che
    sono quelli più dolci, più usuali nelle canzoni di successo; abbiamo persino un
    canonicissimo alzare di tonalità, proprio nelle migliori regole della tradizione
    canzonettistica, e precisamente in Lontano lontano, ma la canzone rimane comunque strana,
    diversa, forse per le parole <<timidezza>> e <<…prendevi un po’ in giro…>> che non
    erano assolutamente nel gergo della canzone dell’epoca, e tantomeno erano ritmabili nel
    ritmo del canto. Insomma in ogni brano c’è sempre qualcosa che va per storto (ai fini del
    conformismo musicale da vendita) e la melodia se ne parte con il suo arrangiamento in
    direzioni impreviste. Per questo il mio ascolto dei brani di Tenco è stato sempre attento,
    non mi sono annoiata mai.

    Forse parte della responsabilità di questo <<andare in una direzione diversa>> della
    musica delle canzoni di Tenco, che poi per noi si traduce in una sensazione di <<non tutto
    tondo>>, quindi do sofferenza, di angosciato richiamo, sta nelle parole che Tenco usa. A
    parte la questione gergale che ho già rilevato, cioè non sono parole in uso a quell’epoca
    nelle canzoni, che dovevano essere sempre composte da poche parole e semplici, a parte
    questo Tenco riesce sempre a usare parole troppo lunghe rispetto al verso musicale,
    oppure troppo corte, così da piegare la melodia a ritmi inconsueti , ma ritmi sempre
    sillabici. Tenco non usa melismi: questo gli impedisce quindi di <<quadrare>> le sue
    melodie, che risultano ritmicamente elastiche, ondeggiando fra un verso corto e uno
    lungo, senza rima, senza accorgimenti di nessun tipo per essere simmetriche.

    Squadrato e asimmetrico, così risulta Tenco, e questo mi sembra il suo aspetto più
    interessante, perché ad ascoltare attentamente si sente che egli avrebbe avuto soluzioni di
    parole quadrate, prevedibili e simmetriche, ma le evita sempre con cura; quindi questo
    effetto è assolutamente voluto, ed è un effetto che dà angoscia, quello stato d’animo che
    giustamente Tenco, poeta degli anni in cui gli aspetti neri del boom economico
    incominciavano a essere evidenti (tanta emigrazione, troppa corruzione, il meridione già
    abbandonato nelle mani della mafia, gli incredibili tentativi di golpe), portava dentro di sé
    e voleva a tutti i costi urlarci addosso.

    Tenco voleva urlarci addosso, sì, ma dagli schermi televisivi, dalle sale dorate del
    Casinò di Sanremo, dai dischi editi dalle grosse case discografiche; molte canzoni di Tenco
    avrebbero potuto immediatamente avere quella che poi si è chiamata una <<distribuzione
    militante>>, ma Tenco non credeva in questo né conosceva questo mondo, che si è
    organizzato quando lui è morto, e si è organizzato solo perché spinto dal proprio essere
    unito al mondo della canzone povera, proletaria, o canzone etnica, contadina, con radici
    profonde e nessuna necessità impellente di grande richiamo commerciale per esistere.
    Tenco voleva <<urlare addosso>> le sue canzoni diverse proprio a quel pubblico di
    borghesia conformista che con la sua inarrestabile crescita gli aveva procurato tanta
    rabbia, tante frustrazioni.

    Non so quanto fosse cosciente della diversità dei proprio modi
    musicali e quanto questi in realtà non fossero altro che frutto di un’invenzione musicale
    più avanzata rispetto ai canoni del momento. Certo è che quando Tenco sceglie invece di
    parlare chiaro ed esprimere anche in parole esplicite la sua rabbia, come in Ognuno è libero,
    la musica non lo sorregge come nelle altre canzoni, quelle in cui è semplicemente se stesso,
    innamorato e deluso, come nella bellissima canzone Angela, musicalmente ben più
    avanzata e <<diversa>>, per la scelta proprio degli intervalli musicali.

    In Ognuno è libero Tenco parla chiaro. Si serve però, musicalmente, di un basso molto forte, una ritmica
    ripetitiva e banale, musica già sentita, priva di ricerca, priva di originalità. Lo stesso accade
    nella canzone E se ci diranno, con un basso molto forte, un ritmo smaccato, una terza
    minore accentuata, in stile <<blues>>, ma senza alcuna altra particolarità del blues.
    Non c’è quell’atmosfera rarefatta, lo swing, le <<blue note>> inevitabili perché proprio
    sentite, no, non c’è questa ispirazione, direi che invece è musica voluta, sforzata. Come se
    Tenco ingenuamente cadesse nell’errore, abbastanza frequente del resto, per cui a testo
    esplicito, impegnato, deve corrispondere una musica lineare e poco elaborata,
    simboleggiante più che esistente per se stessa.

    Ben altra cosa sono le canzoni d’amore di Tenco. Vediamo da vicino Uno di questi giorni
    ti sposerò: in cui oltre alla musica sono da notare anche le espressioni di testo come
    <<…darmi il tuo amore col contagocce…>> assolutamente fuori del comune. Melodia in la
    minore, tempo quattro quarti, non ci sono alterazioni (diesis e bemolle): l’effetto raggiunto
    è di una melodia antica, su modo minore, un po’ <<gregoriana>> come si usa tagliar corto.
    Non direi che a quei tempi una melodia così potesse piacere un granché, se pensiamo agli
    impianti fortemente tonali di un Cementano o di chiunque altro nel mondo della musica
    leggera.
    La melodia non ha alcun sostegno ritmico, in un periodo in cui ci si avvicinava ai tempi
    del ritmo a tutti i costi (basti pensare a Paul Anka o Little Tony, Cuore matto, ecc.).

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    Come vedete non mi sembra giusto indicare con battute la frase musicale di questo
    semplicissimo canto, semplice ma bello, funzionale. E’ veramente una frase a <<respiro>>,
    cioè con cadenza oratoria e non censurale. Quanto di tutto ciò è voluto in Tenco? E il Cini?
    Bravissimo a non <<quadrare>>, a non intervenire con pesante ritmica che senz’altro però
    avrebbe reso più vendibile la canzone, anche se i suoni scelti sono tradizionali: organo,
    piano, ecc.
    Vediamo anche Se sapessi come fai con quella intelligente armonizzazione a cui
    accennavo più sopra.

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    Accompagnamento in do maggiore, come si vede dalle prime quattro battute, canto in do
    settima minore, e a quel punto l’accompagnamento è in fa mentre il canto ci arriverà ben
    due battute dopo. L’idea è intelligente, musicale. E’ la trovata della canzone oltre le parole,
    la melodia è portata per progressioni (si ripete lo stesso schema melodico più in alto),
    l’accompagnamento segue a distanza, sempre tanto da non risolvere la sfasatura
    nemmeno in finale. Questo andare girando per le tonalità con un accompagnamento in
    continuo inseguimento dà angoscia. E’ efficace, ma è certamente prematuro rispetto ai
    tempi.

    In Angela poi abbiamo un motivo semplice, un arrangiamento di buon gusto, un’idea
    nei versi che fa pensare alla vena grottesco-aggressiva di Piero Ciampi, e qui sta lo <<star
    fuori>> di questa canzone che sembrerebbe invece tra le più canoniche, da mercato, di
    Tenco.
    L’ironia con cui Tenco canta questi versi è evidente: l’accompagnamento con violini e
    suoni dolcissimi va in contrasto con il testo che è, sì, d’amore, ma si esprime con immagini
    e stati d’animo che il perbenismo corrente non avrebbe accettato: <<..mi piace vederti
    soffrire…>> ecc. E anche la trovata del testo che fa sì che l’amata Angela pianti in asso il
    suo sadico amante che la canta con voce dolce, melodia dolce, violini dolcissimi, non è di
    quelle che possono mandare in visibilio un pubblico abituato ad applaudire e a piangere
    testi come Non ho l’età.

    La melodia è semplice ma non pacchiana, sofisticata: tonalità mi bemolle minore. Apre
    una elegante scala di violini. Tempo di valzer, ma non molto segnato; leggero, privo di
    ritmica. Il gioco cromatico della decima e undecima battuta è tipico della <<scuola
    genovese>>; la voce, persino, è usata a richiamo di quella di Gino Paoli; il leggero swing,
    diciamo all’italiana, <<rubato>> nel cantare… tutto è da <<chanson>> elegante: questa
    canzone è fatta con molta perizia. Tenco non è assolutamente quel naif, ingenuo e
    volenteroso che alcuni ci hanno presentato, è uno dei pochi che in Italia sanno fare
    canzoni, e questo, da un’analisi musicale, emerge.

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    La ballata della moda e le altre ballate uscite postume sono canzoni che risentono
    dell’influenza di
    movimenti culturali come quello del Cantacronache di Torino, con testi satirici:
    <<…scusate, mi viene da ridere… comunque è certo l’uomo si preoccupa molto…>> (da
    Giornali femminili), testi anticonformisti cui corrisponde una vena musicale minore, come
    ho detto già prima. Abbiamo un basso elettrico, una chitarra elettrica, dei coretti stile
    americano, il testo non è in rima, la musica non è articolata, il testo spesso è più cantato
    che suonato. Tenco previene di molto tempora canzone di satira sociale promossa a livello
    industriale e non da élite.

    In queste canzoni la sua vena musicale è sostenuta da ritmi più jazzistici, suoni di sax,
    ma non mi sembra la sua vena più vera. Interessante comunque è vedere in quante <<vene
    musicali>> diverse Tenco si è espresso.
    Una canzone assolutamente normale è Se stasera sono qui. Si richiama allo stile della
    canzone americana, con un intervallo tipico da Far West nella terza battuta, e un inizio
    dello stesso genere arpeggiando l’accordo perfetto maggiore. In questo canto non c’è nulla
    del Tenco che conosciamo: amarezza, ironia, carica suggestiva, invenzione, originalità,
    eppure è una canzone che si fa ascoltare per il garbo delle parole, per essere comunque
    costruita sempre meglio di quanto ci passava allora il mercato.

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    Prendiamo, tanto per capire cosa intendo con <<note poco usate>>, la canzone Senza parole,
    anche se non scritta da Tenco (la musica è di Gianfranco Riverberi) ma da lui adottata.
    Anche questa canzone, come la precedente, è tra le più vicine ai modi correnti di canto
    commerciale, eppure guardiamo gli intervalli usati:

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    Salti di ottava, di sesta, di quinta, come se l’autore andasse in giro per gli accordi a pescare
    la nota più lontana dalla precedente per costruire una melodia. Ciò non è frequente, non è
    immediatamente orecchiabile, e siamo su uno dei brani più banali, reso tale da
    quell’insopportabile <<ti amo ti amo ti amo>> ironicamente ripetuto dal coretto su un giro
    di accordi (primo, quarto, quinto grado, il più banale possibile).
    Vediamo ora Io sì. E’ un momento di eleganza. La canzone è tutta citazione: di musiche
    folkloristiche russe, con il refrain puramente strumentale in scala minore discendente, con
    aumento progressivo di strumenti fino all’ultimo ingresso dell’oboe e del piano; di musica
    americana, verso la fine delle strofe, con un’accentuazione di swing.

    Tonalità do minore, ritmo in due quarti: è interessante notare come i ritmi di Tenco siano sempre più un fatto
    interiore che di sottolineatura reale attraverso strumenti ritmici. Raramente abbiamo
    l’introduzione degli strumenti ritmici e non ho mai sentito un cantautore usare così poco
    la batteria. Tenco oscilla, ruba; il tempo non è mai quadrato, restando Tenco però
    fedelissimo a un suo ritmo interno, e quando l’accompagnamento lo costringe alla
    quadratura ritmica riesce a star talmente fuori dai tempi forti, pur rimanendo nella
    quadratura generale della battuta, da sembrare un provetto jazzista.

    Si pensi per esempio come canta il famoso pezzo Mi sono innamorato di te, pezzo che
    trascrivo qui avanti perché a mio avvisto è uno dei suoi più belli. Ma, tornando a Io sì, è
    una delle poche canzoni di Tenco in metrica, non proprio in rima, ma con un andamento
    metrico regolare: verso corto <<io sì>> seguito da uno di otto piedi, poi da uno di sette, poi
    di nuovo da uno di otto. Questo inizio breve dell’inciso <<io sì>> favorisce la scala
    discendente, poi una nuova ripresa dall’alto al basso, seguita da una terza ripresa dall’alto
    al basso con rialzata finale appunto per ricominciare, rialzata sospesa, ed è lì il fascino
    della canzone, sia nella musica che nel testo (<<… ma ormai…>>).
    Segue il refrain alla russa, terze minori, ritmo marcato.

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    La salita di tono a ogni strofa è qui giustissima, legata all’ambiente musicale
    dell’arrangiamento in chiave <<folklore slavo>>, non è assolutamente un trucco per tenere
    desta l’attenzione.
    Vediamo dunque Mi sono innamorato di te, un brano di Tenco che ha avuto giustamente
    grande successo.

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    In questo brano è particolarmente riuscita la fusione fra musica e testo. Guardate come sta
    bene quel <<perché>>: come ogni nota corrisponda a una sillaba, senza forzature, il ritmo
    è talmente oratorio, e non censurale (a battute), da sembrarmi una violenza trascriverlo
    con una ritmica ferrea: quando non si sente la divisione in battute, vuol dire che il
    musicista non sentiva quelle battute.

    Tenco infatti è il cantante più aritmicamente compiuto che io abbia mai incontrato, di
    sostegno ritmico (batteria, basso, ecc.) non ne usa quasi mai, appunto perché non potrebbe.
    Il fatto ritmico è solamente interiore, profondamente legato alle sillabe. Tenco canta
    splendidamente le sue canzoni, non si riesce a cantarle meglio di lui, come invece accade
    per altri cantautori, e secondo me questo è proprio per il fatto ritmico, in Tenco
    assolutamente particolare.

    Guardate le frasi <<…non avevo niente da fare…>>,<<…volevo qualcosa da sognare…>>,
    strettamente sillabiche nel canto, a ogni nota una sillaba, tanto
    che sull’<<avevo>> Tenco fa una terzina, giustamente, perché a-ve-vo è composta da tre
    sillabe. Lo stesso vale per il <<parlare d’amore>>, in nota finale: con un altro compositore
    sarebbe stato <<parlare d’amore>> perché la nota di chiusura dev’essere unica e sul tempo
    forte, ma Tenco no, va per i fatti suoi, segue le sillabe della parola, e diventa un <<parlare
    d’amo-re>>, con l’ultima sillaba allungata, tanto che la melodia deve proseguire per
    sostenere quella ultima lunga nota, fuori tempo, e concludere in qualche modo, con il
    pianoforte solo, effetto necessario e perciò in questo caso, bello.

    La linea melodica è una semplice progressione, cioè un disegno geometrico che vuole
    che una stessa frase sia ripetuta più in alto o più in basso quante volte si ritiene opportuno.
    Difficile infatti è uscire dalla progressione, cioè smettere il gioco simmetrico. Come
    interromperlo? E’ da come si interrompe il gioco della progressione che la progressione
    stessa acquista o perde fascino. Come se l’è cavata Tenco? Semplicissimo: non ne è uscito
    affatto. Ha ripreso la progressione tale e quale per la seconda volta, e l’ ha risolta
    semplicemente con la <<chiusa>>: <<parlare d’amore>>, dominante tonica. Questo è
    geniale, in quanto funzionale, e strettamente legato alla parola.

    Vedrai vedrai è un altro esempio di bella melodia sillabica, nella quale compare il primo
    melisma di Tenco, e compare dopo un ascolto di molti brani. Il melisma poi è brevissimo,
    solo sulla parola <<vedrai>> ripetuta alla quarta volta: melisma quindi funzionale, di
    insistenza. E’ sempre la questione ritmica ad affascinarmi, anche in questo brano. Il tempo
    è un continuo alternarsi di duine e terzine, non si sa mai insomma se è da considerarsi in
    suddivisione ternaria (sei ottavi, nove ottavi, ecc.) o binaria (due quarti, quattro quarti,
    ecc.), e questo perché il legame con le sillabe è tale che quando la parola è di tre sillabe, o
    sei, abbiamo senz’altro la suddivisione ternaria; viceversa quando è di due sillabe, o
    quattro ecc.; è quella binaria.

    Ciò permette a Tenco dei bellissimi giochi ritmici, e cioè ad
    esempio: <<ma un bel>>, terzina, <<gior-no>>, duina ; laddove chiunque altro avrebbe
    fatto, per amore della regolarità: <<maun – bel>>, duina, <<giorno>>, duina. Questo è un
    brano in cui si va da <<un-gior-no-per>>, quartina, a <<noi>> nota lunga con implicita
    suddivisione in terminato come fosse <<no-i-i>>. Sono giochi difficili, ed ecco emergere,
    insieme al poeta, il tecnico musicale. Ma tutto ciò a quei tempi, e devo dire anche oggi, nel
    cantare non si fa. Sempre mi riferisco al cantare da grande diffusione discografica,
    naturalmente.

    In questa canzone c’è una mentale suddivisione ritmica grosso modo fra la prima e la
    seconda parte. La prima sarebbe in quattro parti, la seconda in sei o nove ottavi, ma
    proprio perché la prima sarebbe in quattro quarti Tenco si diverte a terminare il maggior
    numero possibile di note, per via sillabica, per esempio: <<…non ho ne…>> o <<…tu non
    guar…>> <<…torna de-luso…>> ecc. Invece nella seconda parte, a suddivisione ternaria,
    Tenco si diverte a fare il maggior numero possibile di quartine e duine: <<gior-no>>,
    oppure <<dir-ti>>, <<co-me>>. La melodia è a intervalli larghi, scorre toccando tutte le
    note della scala di do minore. L’accompagnamento per solo pianoforte è estremamente
    elegante.

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    Vediamo da vicino un ultimo brano, questa volta del genere più esplicitamente
    impegnato: E se ci diranno. Tonalità do maggiore, Tenco abbandona le sue tanto care
    tonalità minori, cariche di bemolli, che contribuiscono non a caso a una sonorità più da
    <<notturno>>, melanconica, tesa; e passa al do maggiore ovvero la chiarezza, l’ottimismo
    (non a caso la sigla del telegiornale è in do maggiore). Eccolo cadere ingenuamente nel
    primo luogo comune del <<canto impegnato>>.

    Poi questo grande maestro del canto
    sillabico, che dà a ogni sillaba il suo valore oscillando continuamente tra tempi ternari e
    binari come nel precedente, bellissimo brano, non trascrivibile in metrica fissa, ora
    raggruppa violentemente le sillabe per farle cadere a <<ritmo>>: <<da man-da-rea-fondo
    >>. Tenco in un brano d’amore non avrebbe mai trascurato quel <<re-a fondo>>:
    <<re-a>> avrebbe cantato, con una lunga nota sul <<re>>, un’altra lunga nota sull’<<a>>,
    per pi ritmare sul <<fon-do>>, mentre qui raggruppa trascurando la cacofonia ( a cui egli è
    invece solitamente molto sensibile) nel dittongo <<rea>>, orribile a sentirsi. Solo un
    pessimo paroliere farebbe queste cose. Come mai qui Tenco le fa? Come mai appoggia la
    melodia su tre accordi? E il <<no no no no>> sta su primo, quarto minore, quinto, primo,
    con una banalità sconcertante? Io credo proprio perché Tenco in quel momento crede di
    dire cose più urgenti e importanti di quando canta <<…mi piace vederti soffrire…>>,
    quando invece non è assolutamente così.

    C’è un fatto da sottolineare; questo errore, del resto comprensibile, Tenco lo fa
    prematuramente. Avrebbe immediatamente smesso non appena si fosse accorto
    dell’invasione di pessime canzoni sempre di grande diffusione commerciale: basti pensare
    a certe banali composizioni giustificate nella loro pochezza dall’impegno (si fa per dire)
    del testo. Che non mi si equivochi: non sto assolutamente parlando dei brani di Della Mea,
    Amodei, Pietrangeli, Bandelli, Bertelli, D’Amico, cantautori di nessuna diffusione
    commerciale, ma che sono riusciti a superare l’impasse canto impegnato = banalità musicale,
    attraverso una continua autentica ispirazione, che li ha portati a scrivere infatti in bel altro
    modo, trasportando sia il <<pubblico>> che il <<privato>> in una sfera propria, di grande
    serietà professionale e poesia. Quello sarebbe un discorso a parte, se non fosse che Tenco,
    in effetti, poco prima della sua morte, aveva preso contatti con il gruppo del Nuovo
    Canzoniere Italiano, di cui appunto ho citato i componenti, forse perché avvertiva il
    pericolo della sua posizione solitaria.

    Io non so perché Luigi Tenco si sia ucciso. Ma so che la sua generazione di poeti, non
    tutti, anzi pochissimi, sono sopravvissuti. Basti pensare alla morte altrettanto tragica,
    anche se assolutamente dovuta al caso, di Piero Ciampi oppure la vita, certamente non
    priva di momenti tragici, di Gino Paoli. Si tratta di poeti veri, schiacciati in un momento in
    cui il mercato incominciava a fare le sue scelte più ciniche. Sono scelte che non lasciano
    spazi, mentre prima spazi in qualche modo se ne trovavano, e se ne trovavano forse per la
    maggiore elasticità delle strutture discografiche, per il minore appiattimento del gusto del
    pubblico, pilotato poi in modo assassino verso la soppressione di ogni <<invenzione>>,
    così da rendere più rapidamente componibili e vendibili prodotti musicali che potrebbero
    essere elaborati tranquillamente da un computer eliminando la mano d’opera e la testa
    all’opera.

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    Un sentito grazie alla DOTT.SSA GIOVANNA MARINI che ci ha autorizzato a pubblicare l'analisi

    Edited by LaVerdeIsola - 29/12/2008, 16:54
     
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